Sussurro (Sigurður Pálsson)

Ora tutto sussurra
tranne il vento leggero
Lui tace sullo strapiombo
Non voglio
non posso
ascoltare quel sussurro
Che taccia col vento
Che s’affacci alla vertigine
all’abisso da capogiro
della lontananza

La tua lontananza

Un istante sul porto nel buio (Sigurður Pálsson)

Cupi i rombi dei motori
dal fondo della nave illuminata dai fari
Dal fondo delle viscere della nave
issano magli nervosi con ritmo di catena
Orgogliosa armonia di vento e metallo
al sottofondo greve di mestizia dei flutti
Un brivido mi schiuma dentro e la voglia
di gettarmi nel fosco frastuono
sotto il ritmo di catena dei magli nervosi
Accecarmi nella tenebra
Sparire dalle luci dei fari
Nel dolore del mare senza riparo
con un urlo infinito
nerboruto e ancorato
in gola.

La mia casa (Sigurður Pálsson)

Non manca quasi niente
nella mia casa.
Quasi niente
Manca il comignolo
Ci si abitua
Mancano i muri
e i quadri sui muri
Pazienza

Non manca molto
nella mia casa
Manca il comignolo
Che per adesso non fuma
Mancano i muri
e le finestre
e la porta

Ma è accogliente, la mia casa
Prego
Accomodatevi
Non abbiate paura
Mangiamo qualcosa
Spezziamo il pane, un goccio di vino
Accendiamo il camino

Guardiamo
no, ammiriamo i quadri
sui muri

Prego
entrate dalla porta
o dalle finestre
se non dai muri.

Conversazione con una pietra (Wisława Szymborska)

Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un’occhiata,
respirarti come l’aria.
– Vattene – dice la pietra.
Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
– Sono di pietra – dice la pietra
– E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.
– Sale grandi e vuote – dice la pietra
ma in esse non c’è spazio.
Belle, può darsi, ma al di là del gusto
dei tuoi poveri sensi.
Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.
Con tutta la superficie mi rivolgo a te,
ma tutto il mio interno è girato altrove.
Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Non cerco in te un rifugio per l’eternità.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.
Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò e uscirò a mani vuote.
E come prova d’esserci davvero stata
porterò solo parole,
a cui nessuno presterà fede.
– Non entrerai – dice la pietra.-
Ti manca il senso del partecipare.
Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare.
Anche una vista affilata fino all’onniveggenza
a nulla ti servirà senza il senso del partecipare.
Non entrerai, non hai che un senso di quel senso,
appena un germe, solo una parvenza.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Non posso attendere duemila secoli
per entrare sotto il tuo tetto.
– Se non mi credi – dice la pietra-
rivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa.
Chiedi a una goccia d’acqua, dirà come la foglia.
Chiedi infine a un capello della tua testa.
Scoppio dal ridere, d’una immensa risata
che non so far scoppiare.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
– Non ho porta – dice la pietra.

Monologo del Non so (Mariangela Gualtieri)

Io non so se questa mia vita sta spianata su un
buco vuoto. Non so se il silenzio che indago
é intrecciato alla mia sostanza molle.
Io non so se quello che cerco e ho cercato e
cercherò, non so se quello che cerco
é un insulto a quel vuoto.
Non so se questo fatto di non avere
un paio d’ali sia premio o castigo,
io non so se la polveriera
della mia inquietudine sia un trono
su cui mi siedo minacciato, se la fuga che
a scatti regolari mi pungola, se quel
puerile sogno di fuga sia uno sgambetto
d’angelo, d’un buffone d’angelo che
mi vuole inciampare.
Io non so se l’amore sia una guerra o una
tregua, non so se l’abbandono d’amore
sia una legge che la vita cuce fino al
ricamo finale. Io non so
che farmene di questi nemici che premono,
non so che farmene oggi di questo oggi
e me lo ciondolo fra le dita perplesse,
non so parlare di quello che
è sentito nel profondo me, non so parlarlo
quell’essere che é qui presente fra le vite degli
altri.

Io non so spiegarmi l’imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d’amore, e non so vederlo che sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate, guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani.

Io non so forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della
vita. Io non so nient’altro
che la vita e molte nuvole intorno che
me la confondono me la confondono e non
so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo
sporgermi al tempo che viene. Io non so
e vorrei, vorrei, non so stare
fuori misura, fuori misura umana,
fuori da questa taglia finita.
Io non so perché guardando l’acqua del mare
mi salta in petto una gioia di figlio con la
madre. Non so se questa uscita mia in un secolo
a caso, se questo essere qui a casaccio,
io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di
tregua, in un’arcadia anche retorica,
in un dormire abbracciato dei
guerrieri che si innamorano.

Io non ho capito e dovrei,
non ho capito il mondo della
vita, io non ho capito la legge sottostante
e non ho da fare la consegna a
questi cuccioli che aspettano, che esigono
da me l’aver capito.
Io non so la canzone
che spensiera e non so soccorrervi
non so pur volendolo
con quella forza di cagna
che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro
sbando, io non so farvi da balsamo
io non so mettervi nel coraggio essenziale,
nello slancio, nel palpito.
Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento
volte.
[…]
Io non so se la bellezza è questa accademia di
centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa
carnevalesca decadenza di saltimbanchi,
io non mi spiego la crocifissione
della grazia, e non mi spiego perchè
mi trovo in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie,
e non so perchè stando a occidente non si
ode quell’alleluia delle cose.
Io non so se in questa schiena
senza ali ci son grandi pianure da cui fare
il decollo, se in questa spina dorsale
ci sono istruzioni
per la manovra di decollo, se sono io la freccia
di questo arco della schiena, se sono io
arco e freccia, non so in quale mano
non mano o zampa di Dio mi stanno
torchiando, e sottoponendo al duro
allenamento dei dolori terrestri.
Io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell’andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
E’ poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so.

Piacere (Bertolt Brecht)

Il primo sguardo dalla finestra al mattino

il vecchio libro ritrovato

volti entusiasti

neve, il mutare delle stagioni

il giornale

il cane

la dialettica

fare la doccia, nuotare

musica antica

scarpe comode

capire

musica moderna

scrivere, piantare

viaggiare

cantare

essere gentili.

Da leggere il mattino e la sera (Bertolt Brecht)

Quello che amo
mi ha detto
che ha bisogno di me
Per questo
ho cura di me stessa
guardo dove cammino e
temo che ogni goccia di pioggia
mi possa uccidere

E il cuore rimane sempre insoddisfatto... (Elisabetta d'Austria - Sissi)

Un desiderio cede a un desiderio più grande
E il cuore rimane sempre insoddisfatto.
E la felicità acquisita
Cessa di essere felicità

Sono un gabbiano che non appartiene ad alcun paese... (Elisabetta d'Austria - Sissi)

Sono un gabbiano che non appartiene ad alcun paese,
Nessuna spiaggia è la mia patria,
Non mi affeziono ad alcun luogo,
Volo di onda in onda.

Voglia il cielo che sia un arrivederci... (Elisabetta d'Austria - Sissi)

Ancora un ultimo sguardo
Su di te, mare diletto,
E poi addio, per crudele che sia;
Voglia il cielo che sia un arrivederci...

Domani, quando i raggi del sole
Ti accarezzeranno sopra le dune,
Con un rapido colpo d'ali
Sarò volata via.

Un volo di bianchi gabbiani
Continuerà a planare su di te,
Se ne manca uno,
Te ne accorgerai?


Adesso che il tempo sembra tutto mio... (Patrizia Cavalli)

Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c’è richiamo e non c’è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.

Dopo anni tormenti e pentimenti... (Patrizia Cavalli)


Dopo anni tormenti e pentimenti
quello che scopro e quello che mi resta
è una banalità fresca e indigesta.

Se ora tu bussassi alla mia porta... (Patrizia Cavalli)


Se ora tu bussassi alla mia porta
e ti togliessi gli occhiali
e io togliessi i miei che sono uguali
e poi tu entrassi dentro la mia bocca
senza temere baci diseguali
e mi dicessi "Amore mio,
ma che è successo?", sarebbe un pezzo
di teatro di successo.

Papà [Daddy] (Sylvia Plath)

Non servi, non servi più,
O nera scarpa, tu
In cui trent’anni ho vissuto
Come un piede, grama e bianca,
Trattenendo respiro e starnuto.
Papà, ammazzarti avrei dovuto.
Ma tu sei morto prima che io
Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,
Statua orrenda dal grigio alluce
Grosso come una foca di Frisco
E un capo nell’Atlantico estroso
Al largo di Nauset laggiù
Dove da verde diventa blu.
Un tempo io pregavo per riaverti.
Ach, du.
In tedesco, in un paese
Di Polonia al suolo spianato
Da guerre, guerre, guerre.
Ma il paese ha un nome molto usato.
Un mio amico polacco
Mi dice che ce n’è un sacco.
Cosi non ho mai saputo
Dov’eri passato o cresciuto.
Mai parlarti ho potuto.
Mi si incollava la lingua al palato.
Mi s’incollava a un filo spinato.
Ich, ich, ich, ich,
Non riuscivo a dir più di così.
Per me ogni tedesco era te.
E quell’idioma osceno
Era un treno, un treno che
Ciuff-ciuff come un ebreo portava via me.
A Dachau, Auschwitz, Belsen.
Da ebreo mi mettevo a parlare.
E lo sono proprio, magari.
Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna
Non sono molto pure o sincere.
Per la mia ava zingara e fortunosi sbocchi
E il mio mazzo di tarocchi e il mio mazzo di tarocchi
Qualcosa di ebreo potrei avere.
Ho avuto sempre terrore di Te,
Con la tua Luftwaffe, il tuo gregregrè.
E il tuo baffo ben curato
E l’occhio ariano d’un bel blu
Uomo-panzer, panzer O Tu –
Non un Dio ma svastica nera
Che nessun cielo ci trapela.
Ogni donna adora un fascista,
Lo stivale in faccia e il cuore
Brutale di un bruto a te uguale.
Tu stai alla lavagna, papà,
Nella foto che ho di te,
Biforcuto nel mento anziché
Nel piede, ma diavolo sempre,
Sempre uomo nero che
Con un morso il cuore mi fende.
Avevo dieci anni che seppellirono te.
A venti cercai di morire
E tornare, tornare a te.
Anche le ossa mi potevano servire.
Ma mi tirarono via dal sacco,
Mi rincollarono i pezzetti.
E il da farsi così io seppi.
Fabbricai un modello di te,
Uomo in nero dall’aria Meinkampf,
E con il gusto di torchiare
E io che dicevo sì, sì.
Papà, eccomi al finale.
Tagliati i fili del nero telefono
Le voci più non ci possono miagolare.
Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi –
Il vampiro che diceva esser te
E un anno il mio sangue bevé,
Anzi sette, se tu
Vuoi saperlo. Papà, puoi star giù.
Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.
Mai i paesani ti hanno amato.
Ballano e pestano su di te.
Che eri Tu l’hanno sempre saputo.
Papà, papà, bastardo, ho finito

Cento Quartine (Patrizia Valduga)

Ho paura di te: sei così bello!
Non affogarmi in notti tanto nere
se prima non mi apri nel cervello
la porta che resiste del piacere.
Ora lo sai: ho bisogno di parole.
Devi imparare a amarmi a modo mio.
E’ la mente malata che lo vuole:
parla, ti prego! parla, Cristoddio!
Terra alla terra, vieni su di me:
voglio il tuo vomere nella mia terra,
fiorire ancora traboccando e
offrire il fiore a te, mio cielo in terra.
Càlati giù, o notte dell’amore,
fammi dimenticare la mia vita,
accoglimi nel seno del tuo cuore,
liberami dal mondo e dalla vita!
«Tu mandali a dormire i tuoi pensieri,
devi ascoltare i sensi solamente;
sarà un combattimento di guerrieri:
combatterà il tuo corpo e non la mente.»
«Non muoverti. Sta’ ferma. Ho detto; ferma!
Che senta la tua fica fino in fondo
Bocciolo mio, ti innaffierò di sperma
Finché avrà fine il tempo e fine il mondo.»
«Allora ce l’hai fatta? sei venuta?
e come sei venuta? Dimmi». Prego?
«Se ti è piaciuto molto sei perduta.»
Non lo posso negare e non lo nego.
Perché anche il piacere è come un peso
e la mente che è qui mi va anche via?
Su, spiegamelo tu. «Per chi mi hai preso?
Per un docente di filosofia?»
«Mucchi di mondi, grappoli di stelle…
sfoggio di universo mica per noi..
Stiamo vicini… pelle contro pelle…
e poi, mia vita, salvati se puoi!»
Da nervi vene valvole ventricoli
da tendini da nervi e cartilagini
papille nervi costole clavicole…
In spasmi da ogni poro mi esce l’anima.
Dal mio martirio viene questa pace,
questa pienezza dalla tua rapina…
A tutto ciò che non ha nome e tace
sento l’anima mia farsi vicina.
«Vuoi che tutto finisca e niente duri?
che ognuno vada a fare i fatti suoi?
stacco il telefono, chiudo gli scuri:
e che la notte ricominci! Vuoi?»
«No, niente amore qui, soltanto sesso:
non svegliamo l’invidia degli dèi».
Ora che tanto bene mi hai concesso,
dio dell’amore, miserere mei…
«La porta del piacere… eccola, è qui.»
Quella del tuo, sicuramente, sí.
«Chi ti apre il cervello ? dimmi, chi ?»
Chi lo sa aprire… Piano… sí, cosí…
Baciami; dammi cento baci, e mille: 
cento per ogni bacio che si estingue, 
e mille da succhiare le tonsille,
da avere in bocca un’anima e due lingue.
Oh sí, accarezza dolcemente, sfiora, 
ma minaccia ogni furia e ogni violenza; 
lentamente… non dentro, non ancora… 
portami a poco a poco all’incoscienza.
«Maledetta, luttuosa fantasia
che esige un cuore mite e anche feroce…»
Fingi di averlo e levamela via:
io voglio che mi avvolga la tua voce.
Tu, misterioso spirito gentile,
fammi la guardia come un carceriere: 
che non nasconda piú, vanesia e vile, 
verità vergognose e voglie vere.
C’è un solo incontro e non c’è un solo addio 
e devo sempre stare sul chi vive:
nel grande cimitero dei miei io 
vivo una vita tutta recidive.
«Guardalo questo corpo: ti appartiene.»
Non ho occhio che pesa e che misura
e per vedere veramente bene 
mi serve il buco della serratura.
In questa stanza che non ha piú uscita, 
come stormisce il sangue, e al suo stormire 
è il mio turno di vivere… di vita…
Io so che sai che cosa voglio dire.
«So solo quello che mi basta a stento
per non sprecare i battiti del cuore, 
perché sapere, sappilo, è un tormento:
è sempre chi piú sa che ha piú dolore.»
Per sogni d’ombre, per ombre di sogni
per l’avanzo d’infanzia che mi avanza
per questo niente vuoi che mi vergogni?
Per sogni d’ombre morte in lontananza?
«Non mi piace il tuo stile da mistero
e reciti te stessa molto male.»
Il sogno è l’infinita ombra del vero 
e spesso è più reale del reale.

Canzone d'amore (Anne Sexton)

Ero la ragazza della catena di S. Antonio,
la ragazza tutta discorsi di bare e serrature,
quella delle bollette del telefono,
la foto sgualcita e i contatti persi,
quella che continuava a dire
Ascoltami! Ascoltami!
Mai! Mai!
e cose del genere
Quella con il bavero
tirato su fino agli occhi,
con gli occhi blu canna di fucile,
con una venuzza sulla piega del collo
che vibrava come un diapason,
con le spalle nude come un palazzo,
con quei piedini e quei ditini,
con un vecchio gancio rosso in bocca,
una bocca il cui sangue gocciolava
nelle regioni orrende della sua anima
la ragazza che si addormentava sempre,
era vecchia come i sassi,
ogni mano un pezzo di cemento,
per ore e ore
e poi si svegliava,
dopo la breve morte,
ed era tenera come,
delicata come
tenera e delicata come
luce in eccesso,
per niente pericolosa,
come un barbone che mangia
o un topo su un tetto
senza botole,
con niente di più onesto
che la tua mano nella sua,
con nessun altro, nessun altro che te!
E cose del genere.
Nessun altro, nessun altro che te!
Oh, non si può tradurre
quell’oceano
quella musica
quel teatro
quel campo di pony.

Solo pelle e ossa... (Michele Mari)

Dice il ghiottone
giorni dieci starò senza dolciumi
e senza grassi e senza sughi e fritti
Così ogni tanto
proviamo a stare un po’ senza sentirci
folli
noi che già siamo
solo pelle e ossa

Il lusso di non baciarci... (Michele Mari)

I nostri incontri eran sessioni
di sguardi sorridenti
che si staccavan solo
per controllare l’ora
e tanto era fra noi lo struggimento
che spesso ci siamo presi il lusso
di non baciarci

Fedeli al duro accordo... (Michele Mari)

Fedeli al duro accordo
non ci cerchiamo più
Così i bambini giocano
a non ridere per primi
guardandosi negli occhi
e alcuni sono così bravi
che diventano tristi
per la vita intera

Natale (Giuseppe Ungaretti)

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Poesia malata (Vivian Lamarque)

Ci deve essere un'epidemia
anche questa mia poesia appena nata
si è già bell'e malata.
Appena tu l'hai letta distaccatamente
senza fermarti e senza dirle niente
si è sentita girare un po' la testa si è appoggiata
si è svestita si è messa a letto
dice che è malata
ha guardato un po' le cose intorno distrattamente
poi ha chiuso gli occhi e non ha più detto niente
come Mimì finge di dormire
per poter con te sola restare
sta lì così melodrammaticamente
sta lì così senza dire niente
già così ridicola e disperata
appena appena nata.

Lascia il tuo cuore... (Rabindranath Tagore)

Lascia il tuo cuore

scoppiare finalmente, 

cedi, gemma, cedi.

Lo spirito della fioritura 

s'è abbattuto su di te. 

Puoi rimanere 

ancora bocciolo?

Di memorie d'amore... (Leah Goldberg)

Di memorie d'amore
gli anni hanno adornato il mio viso
segnandomi i capelli di lievi filigrane grigie:
son diventata così bella.

Le stelle (Edith Sodergran)

Quando viene la notte,
io sto sulla scala e ascolto,
le stelle sciamano in giardino
ed io sto nel buio.
Senti, una stella è caduta risuonando!
Non andare a piedi nudi sull'erba;
il mio giardino è pieno di schegge. 

Due cure per l'amore (Wendy Cope)

Prima: Non vederlo. Non chiamarlo, non scrivergli.
Seconda: Più semplice. Impara a conoscerlo meglio.

Perdita (Blaga Dimitrova)

Non so se mi ero innamorata di te.
Mi innamorai però di altre cose, lo so:
di una stanza scomoda rivolta a nord,
di una teiera che crepitava di sera.

Degli alberi mi innamorai che toglievano spazio,
dei solitari e soffocanti cinema di quartiere,
dei dolorosi ricordi di prigione,
di un muro ferito dalle bombe.

Delle fermate del tram, delle foglie ricoperte di brina,
di una calda tasca con castagne bruciate,
della pioggia scrosciante, del suono del telefono,
perfino della nebbia fonda color cenere.

Di tutto il mondo mi ero innamorata, non di te.
Lo scoprivo nuovo, interessante, ricco.
Per questo soffro... Non per averti perso.
Altro ho perduto - il mondo intero.